L’outside world siamo noi

A Camogli, sulla costa ligure, quasi in riva al mare c'è una piccola piazza, che ai più passa inosservata: il suo nome è “largo Tristan da Cunha”. Su un muro una targa spiega il motivo del gemellaggio fra la cittadina ligure e un sperduta isola nel sud dell'oceano Atlantico: "Tristan da Cunha - arcipelago dell'Atlantico meridionale - vi naufragò il brigantino a palo Italia nel 1892. Dettero vita a quella colonia i marinai camogliesi Gaetano Lavarello e Andrea Repetto". Scopriamo qualcosa di questo luogo che gli abitanti stessi definiscono senza esitazione e persino con orgoglio “l’isola più remota del mondo”.

Posta a metà strada fra il Sudafrica e il continente sudamericano, l’isola di Tristan da Cunha è la principale di un piccolo arcipelago che comprende alcune altre isole disabitate (Nightingale, Gough e Inaccessible Island, quest’ultima un nome un programma). Tristan da Cunha è conosciuta come il lembo di terra più isolato al mondo: l’isola di Sant'Elena, da cui dipende, è a 2300 chilometri, Città del Capo in Sudafrica a 2800, Montevideo a 3415 km, l'isola antartica della Georgia del Sud a 2500. Oggi è un territorio d’oltremare del Regno Unito.

L'isola è la sommità di un vulcano sottomarino, la cui vetta emergente dal mare si innalza sino a 2.000 metri. La cima del cono vulcanico è coperta da nuvole per tutto l'anno, mentre le pendici finiscono a picco sul mare. Non ci sono porti per navi di medio tonnellaggio, che devono ancorarsi a distanza per evitare le correnti. Non ci sono aeroporti né piste di atterraggio. Di forma circolare, ha un diametro di dieci chilometri, ma solo una piccola area posta sul lato nord occidentale è pianeggiante. Qui si trova l’unico centro abitato, pomposamente chiamato “Edinburgh of the Seven Seas”. Per i locali più semplicemente è “the settlement”, cioè “l’insediamento”. I dintorni del centro abitato costituiscono l’unica area coltivata.

Su questa speduta isola risiede una piccola comunità di 270 persone che vivono praticamente isolate dal resto del mondo. Due degli 8 cognomi presenti nella popolazione locale sono di origine ligure (Lavarello e Repetto, originari di Camogli, ciò che spiega la targa con cui si apre il testo).  Gaetano Lavarello e Andrea Repetto approdarono qui nel 1893 dopo il naufragio della loro nave, si innamorarono di due belle isolane e rifiutarono di unirsi al resto della ciurma che rimpatriava a bordo di una nave di passaggio. Gli altri cognomi sono due inglesi (Swain e Patterson), due statunitensi (Hagan e Rogers), uno scozzese (Glass) e uno olandese (Green).

Ragioni del cuore a parte, i motivi per abitare a Tristan da Cunha sono davvero pochi. Il tempo è quasi sempre cattivo, la pioggia cade mediamente 250 giorni all'anno e i venti (detti “roaring forties”) possono essere fortissimi.  Anche la sussistenza è precaria, legata alla coltivazione della patata, unica fonte di sostentamento dopo il fallimento dell'introduzione dei cereali. Addirittura la patata fu per anni la moneta dell'isola e per decenni la ricchezza delle persone fu commisurata alla quantità di tuberi posseduta. Da una trentina d’anni gli isolani ottengono discreti ricavi pescando le aragoste che poi vengono caricate su qualche rara nave di passaggio e vendute in Sudafrica.

In realtà i soldi qui servono a ben poco, perché non c’è praticamente niente da comprare. La “moneta” è la sterlina inglese, non il St Helena Pound da cui l’isola pure dipende amministrativamente. Fino alla fine degli anni ’50 qui non esisteva il denaro. Adesso serve, più che altro, per pagare medicinali, pezzi di ricambio per le jeep e le barche, bombole di gas, carburanti e utensili che vengono fatti arrivare da Città del Capo in cambio delle aragoste. Ogni 5-6 settimane dal Sudafrica arriva qui la motonave Edinburgh, che ancora al largo e trasporta sull’isola con le barche i materiali richiesti. L’arrivo della nave è una festa: per l’occasione chiudono le scuole e il rintocco del gong, che in generale scandisce il tempo dell’isola e funge da sveglia nelle giornate di pesca, annuncia l’imminente scarico delle merci. La stessa calda accoglienza viene riservata alle rarissime navi che portano qui i turisti desiderosi di conoscere questo luogo così isolato.

L’organizzazione sociale di Tristan da Cunha è basata sulla parità assoluta tra gli individui. Non esistono gerarchie e gli ordini non vengono mai impartiti. Le decisioni vengono sempre prese nell'interesse di tutti e mai dei singoli. Per i tristanesi è impensabile che si prenda una decisione per arricchire una persona a scapito delle altre, come spesso succede nel resto del Mondo. Nelle barche ad esempio non c’è mai un capitano. Ogni tristanese, anche grazie al grande affiatamento con gli altri, capisce cosa deve fare e lo fa. I barcaioli tristanesi stupiscono i forestieri per organizzazione, intesa reciproca, capacità di costruire barche e governarle con mare molto mosso.

Qui le case hanno le porte sempre aperte, una straordinaria cultura dell’ospitalità coltivata accogliendo i naufraghi nel corso dei secoli. Colpiscono l’assoluta assenza di criminalità, la solidarietà tra gli abitanti. Nell'isola non si sono mai verificate risse e la violenza è assolutamente inaccettabile. Non a caso, quando nel 1961 un gruppo di indigeni fu costretto a emigrare in Gran Bretagna a causa di una violenta eruzione vulcanica sull’isola, tutti furono negativamente colpiti dalla violenza che videro e tutti decisero di ritornare nella loro piccola isola natia appena fu nuovamente dichiarata abitabile.

Una legge non scritta, ma che vige da due secoli sull’isola, prevede che quando qualcuno lavora per un altro (costruendo una casa, riparando una macchina, dissodando un terreno) non riceve un pagamento in denaro, ma semplicemente un pranzo e un bicchiere di vino. Quando un abitante decide uno “slaughtering”, cioè l’uccisione di un bovino, tutto il villaggio presenzia all’evento. Gli uomini lavorano il corpo della bestia con una precisione e una meticolosità assoluta, prendendo il tempo per spiegare ai bambini presenti ogni passaggio della macellazione. Il padrone della mucca conserva i tagli che gli sono necessari, poi si informa su chi nel villaggio ha terminato le riserve di carne e distribuisce il resto. Lo stesso accade dopo una giornata di pesca, o dopo il raccolto dell’orto.

Ogni alba una splendida processione di donne in stivali si occupa della mungitura. Le luci delle case si accendono una dopo l’altra, secchi bianchi sbucano da stradine diverse, quindi si incamminano tutte verso i patches di patate dove pascolano le mucche. Il latte viene poi distribuito tra tutte le famiglie e portato agli anziani.

È proprio questo senso di coesione sociale e di solidarietà reciproca che rappresenta la forza dell’isola. I tristanesi non la baratteranno mai con le comodità dell’outside world (cioè tutto ciò che sta oltre le coste dell’isola: per loro l’outside world siamo noi), che non appare loro come un miraggio ma piuttosto come un luogo sostanzialmente ostile e pericoloso, in cui si smarrirebbe rapidamente il senso di sicurezza che questo stile di vita garantisce loro.

Con grande tenacia essi si sforzano di preservare il loro sistema e di rispettare la loro terra. Tristan è soprattutto una storia di resistenza, una storia di lotta continua contro le più svariate avversità (naturali ed artificiali) per poter mantenere il proprio isolamento. L’esatto contrario di tutto quello che accade nell’outside world” che lavora nella direzione di connettere, aggregare, annullare distanze.