Diario di un viaggio tra storia, natura, tradizione e frammenti d’Italia

Il diario descrive un tour che partendo da Addis Abeba si snoda attraverso le regioni  della Rift Valley, la Dancalia, il Tigrai e la piana di Gheralta, nel centro-nord dell’Etiopia. Viaggio difficile e complicato dal punto di vista logistico, a causa della mancanza di elettricità e risorse idriche in molte zone, ma che rivela paesaggi meravigliosi e spettacoli naturali unici, in luoghi abitati da popolazioni fiere e gelose custodi della propria identità e delle proprie tradizioni. Assolutamente necessaria una jeep e un conducente capace di destreggiarsi nella sabbia del deserto, sulle pietraie dei fiumi disseccati e tra le pendenze  degli altopiani. Ovviamente, è necessario adattarsi a  pernottamenti in tenda e tukul. Fondamentali abbondanti scorte di acqua e carburante e una dotazione completa di pezzi di ricambio per il veicolo.

Il tour attraverso Dancalia, Tigrai, Gheralta e Rift Valley inizia il 27 dicembre mattina da Addis Abeba (= nuovo fiore, in amarico). Il mio compagno di viaggio è Maurizio Moles di Lugano. Essendo solo in due, il viaggio ci è costato un po’ di più, ma ci troveremo benissimo. Con noi ci sono la guida Kurabatchew (il cui nome viene immediatamente abbreviato in Kura per ovvie ragioni di pronunciabilità) e l’autista Tafarra che ci accompagneranno per tutto il viaggio.

Dopo avere attraversato alcune città e paesotti, il viaggio prosegue lungo la statale 4 che collega Addis Abeba con Gibuti. Mano a mano che ci si allontana da Addis si entra nella savana e si toccano laghetti sulle cui rive oziano gruppi di pellicani e di marabù spelacchiati e gozzuti. 

Arriviamo al parco nazionale dell’Awash, dove riusciamo a vedere alcuni kudu maggiori, i dik-dik e i bellissimi orici dalle lunghe corna, oltre a molte simpatiche scimmiette e qualche coccodrillo. A sera si arriva al Bilen Lodge, un gruppo di tukul immersi nella savana dove per qualche ora un generatore produce corrente elettrica. E’ fondamentale caricare qui le batterie della macchina fotografica, del rasoio e del telefonino che potrà essere usato solo come sveglia, perché poi per 6 giorni saremo senza elettricità. Una passeggiata nella savana attorno al Bilen Lodge mi permette di avvistare gruppi di facoceri e uccelli colorati, al prezzo di escoriazioni varie causa inseguimento facoceri nell’erba spinosa.

Da Awash si riparte verso il lago salato Afrera (ex lago Giulietti ai tempi del fascismo) e incontriamo l’equipaggio della jeep di supporto: il cuoco Koru e l’autista Luigi (proprio così, si chiama come me!). Sulle rive del lago Afrera trascorriamo la prima delle 6 notti in campo e cominciamo ad abituarci alla mancanza di elettricità.

Dopo Afrera, abbandoniamo la strada asfaltata e proseguiamo su una pista di terra e sabbia, tra “burre” e villaggi Afar, fino al villaggio di Kurswad dove c’è il campo per la salita al vulcano Erta Ale. Si dorme in tukul.

Al mattino sveglia alle 5 per la salita al vulcano Erta Ale. Non è alto, 613 mt. Dal campo di Kurswad sono 9-10 km. Ci avevano detto che ci sarebbero volute 4-5 ore di marcia. In realtà le nostre guide Mohamed e Kura, che pure indossano sandali, mica scarpe da trekking come noi,  impostano un ritmo da maratona olimpica e alla fine arriveremo in vetta dopo solo 2 ore e 45 minuti, pur con 3 soste. Pensare che normalmente ho il fiatone dopo 2 piani di scale! 

In cima, tra campi di lava e fumarole attive, c’è il cratere del vulcano. Lo spettacolo offerto dal vulcano è maestoso e terrificante. Una caldera a cielo aperto, del diametro di circa 100 mt, contiene una massa ribollente di lava in continua fluttuazione. Schizzi di lava fusa e zaffate di anidride solforosa vengono sparati verso l’alto e seccano la gola, costringendoti  a centellinare i tempi di permanenza sul bordo del cratere, pena l’asfissia. Qui, affermano gli studiosi, il magma sotterraneo è più vicino alla superficie di qualsiasi altro luogo del pianeta. Al centro della depressione il vulcano Erta Ale si presenta come un grande lago di lava in continua eruzione. Non c’è uno straccio di protezione. Francamente mi meraviglio come nessuno sia mai caduto dentro il cratere.

Discesa mattutina dal vulcano, quindi partenza verso Ahmed Ela. Sono solo 30 km, ma di puro deserto, e ci metteremo  6 ore. Altre jeep ce ne metteranno anche 9. Non c’è pista, non c’è traccia di passaggi precedenti, perché il vento cancella subito le tracce lasciate nella sabbia. Le jeep corrono su linee parallele, a 50-100 metri l’una dall’altra per evitare di essere investiti dalla nuvola di sabbia sollevata al passaggio. Ci vuole molto senso di orientamento, o meglio, secondo me, un GPS, o almeno una bussola, ma non abbiamo né l’uno né l’altro e nonostante ciò le nostre guide ostentano tranquillità e sicurezza. Credo che un paio di volte ci  siamo persi, ma loro hanno fatto finta di niente.

Non si sa come, alle 3 del pomeriggio arriviamo ad Ahmed Ela (= il pozzo di Ahmed). Ci saranno 40 °C all’ombra. Non c’è una pianta, non c’è un angolo di verde, solo “burre” degli Afar e qualche capanna di legno con pareti di cartone, lamiera e ogni altro materiale coprente disponibile. Un luogo oltre l’aridità. Ma gli Afar hanno spostato massi su massi, le donne hanno intrecciato le stuoie delle “burre”, i bambini hanno scelto i rami meno storti delle acacie e tutti assieme hanno costruito dei rifugi che per loro sono case. Il pozzo è l’unica fonte di acqua del villaggio. Fornisce acqua calda, sporca e salmastra, ma sufficiente per dissetare i cavatori del sale e le loro famiglie.

Il caldo è insopportabile, ma a disposizione c’è solo l’acqua calda che beviamo da 3 giorni. Meglio un tè caldo preparato dal nostro cuoco, disseta di più. Ci buttiamo nella capanna che ci hanno assegnato, dove almeno c’è ombra, aspettando che tramonti il sole e che con l’oscurità la temperatura scenda di qualche grado. Intanto sulla strada a lato della capanna passano carovane di muli e cammelli carichi di sale, incuranti del caldo e del sole.

Dallol: impressionante.  Altro  luogo che  se uno non lo vede non ci crede che esiste. Dallol è una depressione (da -60 a -100 mt) che si trova a 20 km circa da Ahmed Ela. Ci si arriva dopo avere attraversato con le jeep un deserto di sale.  Passata la collina che nasconde allo sguardo la depressione, sembra di essere scesi da un’astronave su un pianeta sconosciuto.   Il termometro segna 44 °C, ma la pressoché totale assenza di umidità, l’incomparabile bellezza del luogo e una gradevole brezzolina rendono la visita sopportabile. La guida mi dice che in giugno-luglio a Dallol ci sono 58-60 °C.

Superiamo una collinetta di pietre e calcare, poi una zona di formazioni calcaree circolari appiattite (nella foto si vede il mio compagno di viaggio alla ricerca della posizione migliore per scattare una foto) e davanti ai nostri occhi si apre una all’improvviso una piana dove sbuffano fumarole e camini di cristallo, sorgenti calde e geyser eruttano al cielo, sbuffi di vapore gorgogliano da fontane ribollenti, terrazzamenti multicolori e pinnacoli di sale cristallizzano in mille forme colorate. E’ come se un pittore avesse deciso di dipingere di mille colori un paesaggio lunare.

Torniamo a Ahmed Ela con gli occhi pieni di colori e immagini stupende. Riattraversiamo il deserto di sale. La mattina dopo, con occhiaie e palpebre pesanti a causa di un maledetto asino che ha ragliato tutta la notte, partiamo verso il lago Assale. “Assa Ale” in dancalo significa monte rosso: il lago prende il nome da due spuntoni di solfato di magnesio reso rosso dall’ossidazione. Qui si raggiunge la maggiore depressione della Dancalia etiopica: 116 metri sotto il livello del mare. 

Il lago è una crosta di sale che normalmente si trova nella parte orientale della Piana del Sale. Le dimensioni del lago e la sua stessa localizzazione sono indefinite, dipendendo dalle rare piogge che cadono nella zona. Dicono qui che lo strato di sale sia spesso un kilometro, ma questa asserzione  appare piuttosto inverosimile. Più probabile che lo strato di sale arrivi a 4 - 5 metri, secondo la profondità del lago, rigenerandosi in continuazione.

All’arrivo si presenta agli occhi un altro spettacolo da bolgia dantesca. I compiti dei lavoratori del sale sono storicamente ripartiti tra tigrini e afar. Gli estrattori tigrini (“fokolo”)  spaccano la crosta del lago salato facendo leva con delle pertiche di legno e poi con rozze scuri la tagliano in pezzature grossolane, che passano agli afar. Gli intagliatori Afar  (“hedele”) con asce ricurve più piccole puliscono e squadrano i blocchi di sale ricavandone dei parallelepipedi piatti di 3-4 kg di peso (“ganfur”)  e li ammonticchiano per i cammellieri.

Lo sforzo di entrambi i gruppi di lavoro, tigrini e afar, soprattutto i tigrini che fanno il lavoro più duro, è enorme. Lavorano per 5-6 ore su una crosta di sale sotto un sole implacabile. Alle 11, massimo mezzogiorno, bisogna smettere perché fa troppo caldo, e pensare che siamo in inverno.

I cammellieri comprano le mattonelle di sale e le caricano su cammelli e muli. Ogni cammello può portare circa 200 kg di carico, ogni mulo non più di 30-40 kg. Dato che ogni ganfur di sale vale circa 2 Euro, il carico di un cammello vale sugli 80 Euro. Tanti soldi per questa gente.

A partire dal primo pomeriggio le carovane sono pronte e iniziano la lunga marcia verso Agula, nel Tigrai, dove i blocchi di sale verranno scaricati e venduti. Il percorso da Assale a Agula è di circa 150 km e comprende due passi di montagna. La marcia dura 3-4 giorni. Tenuto conto che altrettanti ce ne sono voluti per arrivare fin qui, è difficile che un cammelliere riesca a fare più di due viaggi al mese. Ma la gente di qui dice che anche con un viaggio solo già c’è guadagno sufficiente.

Con in mente gli sforzi sovrumani della gente che spacca e taglia i blocchi di sale sotto un sole cocente, lasciamo Ahmed Ela e ci avviamo verso il massiccio montano di Asso Bole.

Nel viaggio "Dancalia" potete trovare altre foto che mostrano l'Erta Ale, Dallole Ahmed Ela.

Arriviamo a tardo pomeriggio e ci accampiamo in un passo di montagna che è passaggio obbligato per le carovane del sale, sia quelle che vanno ad Ahmed Ela a caricare, sia quelle che da lì vengono e sono dirette ai mercati di Agula. Rimango a lungo a guardare, rapito da questo processo secolare e dai suoni e dai gesti ritmati degli uomini che guidano il loro branco di cammelli.

Continuiamo ad attraversare il massiccio montano di Asso Bole fino a raggiungere il villaggio di Behre Ale. Lungo il tragitto paesaggi stupendi come sempre, ma  quello che colpisce è che arrivati a Behre Ale vediamo …un telefono pubblico!!!

Ebbene sì, qui ci sono i pali della luce. Siamo tornati nel mondo governato dalla corrente elettrica. Quindi funzionano anche i frigo, ma certo! Perciò possiamo farci una bella bottiglia di acqua fredda. Era ora, dopo 6 giorni di acqua calda. I pali della luce, dopo tanto tempo che non li vedevi più, ti danno una sensazione di sicurezza. Provare per credere!.

Da Behre Ale proseguiamo attraverso le montagne che segnano il confine tra Dancalia e Tigrai. La differenza si nota subito, soprattutto per la ricomparsa della vegetazione. Proseguiamo verso Hawsien e alla sera arriviamo al Gheralta Lodge. Tempo 5 secondi e ci si butta sotto la doccia. Difficile descrivere cosa vuol dire potere fare una doccia dopo 6 giorni di  deserto. Una libidine immensa J.

Il Tigrai è costellato da bellissime chiese e ortodosse scavate nella roccia. Generalmente sono posizionate su speroni rocciosi raggiungibili con grande difficoltà. Più che le chiese in sé, quello che colpisce sono i paesaggi sensazionali che si godono lungo le scalate per raggiungerle e dall’alto, dopo che ci si è arrivati. Dopo avere attraversato la regione, si raggiunge Makallé, la capitale di questo territorio.

Da Makallé con un tratto in aereo raggiungiamo Addis Abeba (“fiore rosso”, in amarico). Metropoli in altura, con molte rimembranze dell’antica dominazione italiana. Qui fervono i preparativi per il Natale, e fa un certo effetto vedere manichini in maniche corte con in testa la papalina di babbo Natale sotto le insegne Merry Christmas.

Visitiamo qualche chiesa e dei musei. Il migliore è il Museo Etnografico, l’unico che veramente valga la pena. Il vero pezzo forte di Addis Abeba è il Merkato. Proprio così, come in italiano. Peraltro, anche la piazza principale di Addis si chiama Piazza….

Il Merkato è un caos indescrivibile di gente che va e viene, compra e vende, tocca e sceglie la merce esposta. C’è tutto di tutto: tessuti, spezie, alimenti, stoviglie, calzature, indumenti, animali, medicine, fiori, sementi, canestri, pentole, persino…. cacca di cammello venduta come combustibile!

Colpisce soprattutto la zona dei riciclatori. Fanno sandali con la gomma dei pneumatici usati, fornelli da cucina compattando scatole di latta, oggetti di plastica con le bottigliette vuote. Anche nei mercati di provincia di Desiha e Hawsien avevamo notato questa abilità degli etiopi di riciclare gli scarti.

Riusciamo anche a fare un salto al “Club Juventus”, dove si ritrovano le famiglie degli italiani che vivono in Etiopia o che hanno sposato un’etiope. 

Alla sera cena al ristorante tipico Habesha, con spettacolo di danze popolari. La cena è a buffet e solo dopo esserci serviti di bocconcini piccantissimi scopriamo che c’erano due zone distinte della tavolata: quella dei cibi speziati e quella dei cibi non speziati. Ma il cibo complessivamente è buonissimo, accompagnato con injera a volontà.

Intanto musicanti e danzatrici si esibiscono sul palco. Le danze sono tipiche dell’etnia Oromo, che vive nel sud-ovest del paese. I movimenti sono estremamente sensuali, diciamo che il richiamo all’atto sessuale è davvero esplicito.  Le ballerine indossano stupendi vestiti a colori vivaci. Hanno un fisico statuario e occhi neri profondi, alcune sono di una bellezza sconvolgente.

Il viaggio si conclude qui. Organizzazione perfetta: davvero complimenti a tutto lo staff. Se l’aggettivo più idoneo che trovo per questo viaggio è “ECCEZIONALE”, lo si deve anche a loro, alle guide, alla perfetta preparazione dei veicoli, all’abilità degli autisti, alla pianificazione dettagliata ma flessibile. Non abbiamo mai avuto l’assillo del tempo, mai fretta, mai un ritardo o un disguido pur avendo attraversato deserti, superato passi di montagna, costeggiato dirupi e strapiombi. Davvero complimenti a tutti loro.

Certo, la bellezza dei luoghi, dei momenti e degli avvenimenti è stata fondamentale, ma questi ci sono sempre. L’importante è saperli vivere nella maniera giusta e coglierli a tempo, cosa in cui gli organizzatori sono riusciti appieno.

Grazie al compagno di viaggio Maurizio Moles, che ha sopportato qualche mio eccesso di ricerca fotografica e i colpi di tosse quando ho beccato il raffreddore. Grazie a Kura, Tafarra, Koru, Luigi e Mahmadou. Forse ci rivedremo.